Quale giustizia per Marco?

di ELIANA NARCISI (ELIANA ENNE) –

Quante volte può morire un ragazzo?
Era una domenica di maggio di tre anni fa e Marco Vannini era a cena a casa di Martina, la ragazza che amava e di cui si fidava ciecamente, alla presenza dei genitori e del fratello di lei con la fidanzata Viola. Era tra persone che avrebbero dovuto trattarlo come uno di famiglia e invece trova la morte. La prima volta lo uccide il padre della sua fidanzata, con un colpo di pistola in pieno torace intorno alle ore 23.

La seconda volta lo uccide l’indifferenza di tutto il clan Ciontoli, perché Marco in realtà poteva ancora essere salvato. Penso a Martina, che diceva di amarlo e che, invece di aiutarlo, preferisce pulire le tracce del delitto e coprire l’assassino. Penso alla madre di Martina, che aspetta quasi un’ora prima di contattare il 118 e subito dopo annulla la richiesta. Penso al padre di Martina, che sa di aver premuto il grilletto, eppure telefona al 118 dopo un’altra mezz’ora e dice che Marco si è punto con un pettine. Ho ancora nelle orecchie l’eco della voce calma e fredda di Antonio Ciontoli, mentre in sottofondo si percepiscono le grida strazianti di dolore del povero Marco: ‘Ti prego! Basta!’. Per colpa delle sue menzogne, l’ambulanza arriverà in codice verde e senza neppure un medico a bordo.

La terza volta lo ha ucciso la Corte d’assise, che ha riconosciuto l’omicidio volontario, eppure ha condannato Ciontoli a soli 14 anni (sarebbero stati pochi perfino i 21 chiesti dal PM), la moglie e i figli Martina e Federico ad appena 3 anni (derubricando l’orrore che hanno compiuto e concedendo tutte le attenuanti), e ha addirittura assolto Viola (alla quale era contestata semplicemente l’omissione di soccorso). I Giudici hanno avuto più compassione per gli assassini che della vittima.

Penso ai genitori del povero Marco, alla mamma Marina che da quel giorno non smette di piangere, al papà Valerio che non riesce più a dormire, penso che la vita di un giovane dovrebbe valere di più, molto di più di quella dei suoi carnefici. Per legge, la sentenza viene pronunciata ‘In nome del popolo Italiano’. Ecco, ci tengo a precisare: non nel mio nome.

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