Il gelso, l’albero più saggio. Il mito di Piramo e Tisbe

Il gelso bianco e Villa Azzolino a Grottammare

di AMERICO MARCONI –

Nelle nostre campagne picene vivono numerosi alberi di gelso. Testimoniano il fiorente allevamento del baco da seta, ghiotto delle foglie del gelso, e la conseguente produzione della seta. Attività praticate nelle Marche, e in altre zone d’Italia, dal 1300 al 1900. Perciò la stessa memoria avrà luoghi dove vegetano le verdissime piante dai solcati tronchi. Nel tempo felicissimo dell’infanzia, ce ne sono tre nella strada e intorno casa di nonno Pacì e nonna Ciola (Pacifico e Lucia), mezzadri degli Ascolani. Un gelso centenario, ancora vegeto e forte, sta nel Parco della Madonnina a Grottammare, davanti a Villa Azzolino. E lì Gino Voltattorni, mio zio e maestro alle elementari, ci spiegava la storia e le abitudini del baco da seta.

Il gelso proviene dall’Asia e si distingue in gelso bianco (morus alba) e gelso nero (morus nigra). Ciò che soprattutto li differenzia l’uno dall’altro sono le infruttescenze o more: bianche tendenti al giallo quelle del bianco e rosate fino al rosso scuro quelle del nero. Come diceva Plinio: «Il gelso è il più saggio tra gli alberi, perché germoglia in una sola notte quando sono finiti i freddi». Con le foglie, ai primi caldi, spuntano le infruttescenze. In dialetto locale il gelso è chiamato “mure” e le dolcissime infruttescenze “meriche”. La leggenda vuole che i bachi, o meglio i loro bozzoli, furono trafugati dalla Cina nascosti in bastoni di bambù intorno al VI secolo e vennero donati all’imperatore Giustiniano.

Il mito del gelso lo racconta Ovidio, poeta romano, nelle Metamorfosi. Piramo e Tisbe, sono due giovani innamorati contro la volontà dei genitori. Abitando vicini possono comunicare solo attraverso una fessura del muro. Dopo promesse e sospiri una notte decidono d’incontrasi presso una pianta di gelso. Tisbe arriva per prima ma vede una leonessa che, reduce da un pasto cruento, si avvia a bere alla fonte vicina. Mentre fugge a nascondersi, le cade un velo su cui l’animale di ritorno lascia con il muso tracce di sangue. Giunge Piramo e vede il velo insanguinato, pensando che l’amata è morta a causa del suo ritardo, piangendo impugna la spada e si trafigge. Il sangue dalla ferita schizza in alto fino a macchiare i frutti di gelso. Uscita dal nascondiglio e tornata sul luogo convenuto Tisbe si accorge del corpo morente dell’amato e lo invoca disperata. Piramo riesce appena a guardarla e pronunciarne il nome, poi muore. Tisbe non può sopravvivergli e decide di uccidersi con la stessa spada. Prima però si raccomanda agli dèi che permettano di seppellire i loro corpi sotto al gelso. E al gelso di ricordare il loro amore attraverso i suoi frutti rubri. Così sarà fatto.

Conoscendo la storia quando decisi di piantare due gelsi, tra gli ulivi nel giardino di casa, li scelsi neri. E osservandoli, proprio mentre sto scrivendo, noto un particolare: le loro foglie sono a cuore. Mentre il bianco – quello davanti a Villa Azzolino – le ha di forma ovale. Ecco, mi dico, la pianta non ricorda l’amore di Piramo e Tisbe solo nel colore rosso dei frutti ma pure nella forma a cuore delle foglie. Il sapore dolce e delicato delle sue more evoca la soavità dei momenti felici di ogni storia d’amore.

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Piramo e Tisbe (Pierre Gautherot, 1799)