Foce di Montemonaco, l’ombelico dei Sibillini

Foce di Montemonaco

di AMERICO MARCONI –

Scrivere di Foce per chi, come me, ci è stato fin dall’infanzia salendo al lago di Pilato e al monte Vettore. Ci è tornato più volte per arrampicare sul picco che chiude la valle verso sud ed è il Pizzo del Diavolo. Ci ha presentato i suoi due libri che trattano di montagna. Ci ha conosciuto uomini e donne autentiche e coraggiose. Non è per niente facile. È cercare una traccia di sentiero tra cumuli di emozioni, sentimenti, ricordi mai sedimentati. Inizierò con una definizione, anche questa personale. Foce di Montemonaco, piccolo paese adagiato a quasi 1000 mt di altitudine tra due bracci di montagne proprio dove sgorga il fiume Aso, è l’ombelico dei Monti Sibillini. Non tanto un ombelico topografico, quanto storico mitologico. Il suo nome più antico è Fuce, da fauce, perché si trova in una gola di montagna. Antoine De La Sale nel 1420, seicento anni fa, in una mappa la chiamò Fogia. Anche lui, impavido cavaliere, pone Fogia al centro. Tra il maledetto lago di Pilato – con i negromanti che vi salivano alla ricerca di arcani poteri – e il monte della Sibilla – dove in una grotta, si diceva, abitasse la profetessa e maga Sibilla con le sue avvenenti ancelle.

Negli anni Settanta a Foce c’era la Taverna di Velia. Una signora anziana sempre vestita di scuro, aiutata dalla giovane nipote. La conoscevamo così bene che quando rimanevamo soli, a fine cena, la invitavamo a raccontare delle Fate. Velia si sedeva, prendeva tra le mani il rosario (a indicare che si parlava di creature del male) e a bassa voce raccontava. Alle feste di paese, quando si ballava il saltarello al suono dell’organetto e del tamburello, si notavano ragazze molto belle che sapevano ballare benissimo. I giovani del paese restavano incantati. Le corteggiavano e si appartavano con loro. Ma si risvegliavano da soli, in un luogo lontano, e tornavano a Foce senza ricordare niente. Quelle irresistibili fanciulle erano Fate alla corte della regina Sibilla che, dopo averli sedotti, ai primi chiarori del mattino, fuggivano per tornare nella grotta o si sarebbero trasformate in capre.

In anni più recenti dopo le nostre scarpinate al lago di Pilato e dintorni ci rifocillavamo alla Taverna della Montagna. Battista Mazzarelli il proprietario, detto Battì, voleva conoscere il resoconto della giornata. Tempi, incontri, particolari notati sulle rocce o sulle piante, per altri senza significato ma per lui tasselli di un disegno più ampio che a noi sfuggiva. A sua volta Battì  raccontava storie, nessuno ne conosceva così tante. Spesso davanti al bel camino della Taverna. La più impressionante era quella di un uomo incappucciato, vestito di nero (forse un frate) che compariva nei pressi della chiesa di San Bartolomeo. Al discendere delle tenebre in tanti lo avevano visto o se l’erano trovato vicino silenzioso e irrequieto. Col suo vagare senza tregua tra case e vallate circostanti. Lo chiamavano lu moròsciu, e ne erano tutti spaventati. Una notte si allontanò così tanto, lassù tra le creste del lago, che più non tornò.

Ma potevano capitare anche leggendarie fortune nel vivere o girare per i Sibillini. Come scoprire un tesoro. Nelle viscere del monte Sibilla, e in altri nascondigli, non vivevano solo la maga e le sue fate ma anche animali piccoli e grandi tutti d’oro. Trovarli avrebbe garantito una vita di agi. Noi che tanto abbiamo cercato per buchi, forre, grotte non li ritrovammo. Ma un tesoro lo abbiamo scovato: posto nella caverna del cuore: è l’amore senza confini per la montagna, la sua natura e i suoi abitanti.

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Foce di Montemonaco vista dall’alto, dalla Sibilla