di GIAMPIETRO DE ANGELIS –
Normalmente non seguo lo sport per cui, fino a pochi giorni fa il nome di Kobe Bryant non mi era noto. Quello che sapevo, del basket, è che è uno sport nobile, dove è forte il senso della squadra, dove prevale la sportività e il sacrificio di allenamenti impegnativi. Una disciplina che, grazie a campioni di livello, ha assunto sempre più notorietà anche in un paese calciofilo come il nostro. Quando ho sentito la notizia dell’incidente dell’elicottero, sul momento era solo un triste fatto di cronaca. Ma poi, servizio su servizio, ho compreso che era qualcosa di più. Molto di più.
Kobe Bryant era un cestista, in termini tecnici una “guardia tiratrice” che, senza entrare nello specifico, significa che su di lui si faceva affidamento per fare punti. E lui, i punti li sapeva mettere. I cesti gli erano familiari, in tutti i sensi. Si, perché essere figlio di Joe Bryant e nipote di Chubby Cox qualcosa vorrà dire. Crescere in un ambiente dove il basket è l’aria che respiri, è ben di più che avere una passione. È l’elemento vitale, la tua anima, i tuoi pensieri, i sentimenti. È il tutto. Ce lo immaginiamo il piccolo Kobe che va a vedere gli allenamenti del padre, va alle partite e fa il tifo, segue i movimenti immaginando le azioni come in un torneo a scacchi dove, di mossa in mossa, la mente va lontano, fantastica le sequenze e decide ben prima che accada cosa dovrà essere. Cosa sarà.
Ce lo immaginiamo in Italia il piccolo Kobe. Già, la nostra Italia, così snobbata da noi, talvolta, così amata da persone come lui. C’è vissuto dal 1984 al 1991, da sei fino a tredici anni di età, al seguito del padre Joe. È da noi che si allenava da ragazzino. Anni fondamentali, dove l’italianità gli entra nel cuore, al punto che alle figlie che avrà da adulto metterà nomi italiani. Lui, l’italiano lo ha sempre parlato. Anche da grande, da campione. Non l’ha mai dimenticato. Nelle nostre regioni è andato a scuola, ha appreso i dialetti delle varie città, frequentato le nostre palestre. È da noi che ha imparato “il mestiere”, lui che sarà il grande campione nell’ambito della National Basketball Association, ovvero la NBA, è la più importante lega professionistica di pallacanestro degli Stati Uniti e del Canada. Il riferimento massimo del basket. Se vuoi vedere il basket, segui la NBA. Segui persone come Kobe.
Non entro nel merito e nel racconto della sua straordinaria carriera di cestista. Giusto dire però che ha giocato la sua ultima partita in NBA il 13 aprile 2016, concludendo alla grande con 60 punti, nonostante i problemi fisici che aveva e che lo hanno costretto a smettere. Gli appassionati ricorderanno anche che in una partita aveva segnato 81 punti, stabilendo il suo record personale e che, nell’ambito della NBA, è la seconda prestazione più importante di sempre. Ed ha vinto cinque titoli. Numeri, questi, sbalorditivi. Forse non tutti lo hanno amato perché la sua “furia” agonistica lo portava ad essere anche brusco e duro, negli allenamenti e nelle partite, ma di sicuro si è guadagnato un rispetto assoluto. E stima.
La lettera con cui aveva annunciato il proprio ritiro dal basket, commuovendo molti, è stata lo spunto per realizzare un cortometraggio animato intitolato “Dear Basketball” che ha preso l’Oscar. Kobe è stato il primo sportivo a vincere la statuetta. Il 12 novembre 2018 aveva pubblicato un libro intitolato “The Mamba Mentality – Il mio basket”. Ci ritroviamo il suo modo d’essere, l’approccio alla disciplina, quella determinazione sconfinata che non ammetteva ripensamenti. Il basket era vissuto con totalità, gli allenamenti avevano un solo obiettivo: essere sempre più competitivo, più forte, più performante. E le partite dovevano essere vinte. Questa “fede” in qualche modo è arrivata a tanti ragazzi che hanno visto in Bryant un esempio, un mito forse irraggiungibile ma avvicinabile. Un parametro di riferimento, un’ispirazione. Spike Lee aveva realizzato nel 2008 un film-documentario dedicato a lui, intitolato “Kobe Doin’ Work”.
Kobe si era impegnato nel sociale con una serie di iniziative. Con la “Kobe Bryant China Fund” favoriva l’educazione scolastica e sportiva dei ragazzi in Cina. Successivamente, con sua moglie Vanessa, aveva fondato la “Kobe & Vanessa Bryant Family Foundation”, per aiutare i giovani abitanti di Los Angeles in difficoltà economiche e sociali. È stato ambasciatore dell’”After-School All-Stars”. Tra le molte iniziative benefiche ricordiamo quando aveva donato un milione di dollari per aiutare i soldati a reintegrarsi nella vita civile dopo la guerra. Ma soprattutto, aveva fondato la “Mamba Academy”, la sua scuola di basket, dove far crescere e maturare giovani talenti. Tra questi, c’era sua figlia Gianna. In questo progetto, ci si dedicava totalmente.
E poi quel volo, con il suo elicottero privato, il 26 gennaio 2020. Bryan è con sua figlia Gianna e altre persone. C’è nebbia fitta, tale da sconsigliare il volo. Non sappiamo quale determinazione li avesse spinti alla partenza. Sappiamo come è finita. Gianna aveva tredici anni, promessa del basket. Si è interrotto un ciclo che era iniziato da lontano e lontano sarebbe potuto arrivare. Commuovendo tutti, anche persone che, come me, non sa quasi nulla di sport. Ci sono cose che vanno oltre le competenze, diventano epopea, diventano narrazioni ampie, che hanno a che fare con il senso stesso e profondo della vita. Ricorderemo il suo sorriso, la bellezza delle sue tenaci azioni in campo, il significato di un sogno.
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