Lina Wertmüller, regista di vita con maestria e disincanto

(Getty Images)

di GIAMPIETRO DE ANGELIS –

Che era persona di spiccata personalità lo si vedeva subito. Per quello sguardo sempre pronto all’ironia intelligente, per i suoi immancabili occhiali dalla cornice bianca, per le tematiche trattate che, per quanto serie fossero, erano narrate come solo lei poteva e sapere fare, con i linguaggi inaspettati, con il gioco psicologico, spesso sarcastico, proiettato sul contrasto caratteriale dei personaggi. E quei titoli! Lunghi da essere quasi una sinossi, belli nella loro anticonvenzionalità: asciutti, precisi, determinati. Esattamente come lei. Lina Wertmüller ha rappresentato – e rappresenterà – una conditio sine qua non nel panorama cinematografico, un’icona insostituibile.  Ci voleva coraggio e un po’ di lucida follia, e soprattutto occorreva non porsi pregiudizi di sorta: un gioco facile per lei. Eppure, la Wertmüller era persona gentile, nei modi e nei rapporti con le persone, con qualche funzionale eccezione nell’esercizio della regia, dove – si racconta – era capace di tutto, come, ad esempio, azzannare un dito ad un Luciano De Crescenzo che gesticolava troppo.

Wertmüller era a suo agio sul set come sul palco della vita. Riusciva a sdrammatizzare quello che poteva essere letto e vissuto come drammatico. Ma nonostante l’ironia, la narrazione paradossale, l’apparente leggerezza, ecco che il tema, l’argomento principe con le sue morali e i suoi codici etici, veniva fuori. Dominava da dietro le quinte, serpeggiava ovunque, non si lasciava sovrastare, arrivando alle coscienze, anche a quelle meno allenate alla sensibilità. Era lì il suo genio, la maestria, la saggezza e l’onestà intellettuale.
Forse, quei titoli così lunghi (non tanto ad inizio carriera, ma poi) erano una ironica e suggestiva conseguenza del suo nome, perché lei, in verità, non si chiamava Lina Wertmüller ma Arcangela Felice Assunta Wertmüller von Elgg Spanol von Braueich. Insomma, era abituata alle estensioni esagerate.

Era nata a Roma nel 1928 da famiglia con radici aristocratiche. Da qui, il nome infinito.
Lina si è occupata sempre di spettacolo, fin da adolescente. Dapprima frequentando l’accademia teatrale diretta dal russo Pietro Sharoff, specializzandosi nella regia, senza trascurare la scrittura dei testi. Regista ed autrice lo sarà sempre, passando dal teatro alla televisione e dal piccolo al grande schermo, merito anche, se non altro per lo stimolo, della grande amicizia con Marcello Mastroianni e alcune prestigiose collaborazioni. È stata, ad esempio, aiuto regista di Federico Fellini. Pellicole intramontabili come “La dolce vita” e “8½” sono state realizzate anche con la sua partecipazione. E poi, l’incontro con Giancarlo Giannini e una serie di film che l’hanno imposta all’attenzione di tutti, riscuotendo consenso commerciale e di critica, con tre candidature all’Oscar per la regia. L’ultimo riconoscimento nel 2020 con l’Oscar alla carriera.

Le sue tematiche hanno affrontato tutto ciò che è divisivo, ma con lo sguardo del disincanto, di chi non si prende troppo sul serio, ma non rinuncia a dire la sua, a suo modo, dipingendo gli eterni e irrisolti contrasti tra il nord e il sud del paese, tra le classi sociali, in particolare tra borghesia e proletariato, tra uomo e donna. Ha guardato la politica, gli sviluppi sociali, i passaggi storici, trovando sempre la maniera di porre in ridicolo gli eccessi, le storture, le prepotenze, i campanilismi e i luoghi comuni. Grande donna, Lina, immensa regista la Wertmüller. Ci mancherà, ora che se ne è andata a 93 anni, lasciandoci la consapevolezza che nella vita occorre fare ciò che si ama fare. Le vocazioni non sono casuali, vanno raccolte, amate, sperimentate. Sviluppate. Lei lo ha fatto e lo diceva. Dichiarava di essere andata dritta per la sua strada, scegliendo di fare quello che le piaceva. E scherzando, ma forse no, aggiungeva che, per il suo carattere forte, era stata cacciata da undici scuole.

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