Il giorno del riccio, in un afoso pomeriggio estivo

foto di Giampietro De Angelis

di GIAMPIETRO DE ANGELIS –

Nell’apparente normalità di un afoso pomeriggio estivo, dopo aver parcheggiato, mia moglie ed io notiamo un’insolita presenza. Un piccolo animale – sembra un riccio ma al momento non ne abbiamo la certezza – è ad un metro dalla ruota dell’auto. Dapprima immobile, poi, a piccoli e lenti passi, si sposta di pochi centimetri, come se non notasse, né sentisse, la nostra presenza. Incuriositi osserviamo, ci avviciniamo senza disturbare. Vediamo che è smagrito, non proprio giovane, affaticato, forse malato. Ma chi può dirlo? È strano sia lì, i ricci di giorno preferiscono stare nella tana, nei sottoboschi, è nella notte che escono in cerca di cibo. Guardiamo meglio il manto fitto di aculei e il cranio dalla forma allungata. Non c’è dubbio sia il riccio, Erinaceus europaeus Linnaeus, uno dei mammiferi più antichi, praticamente simile ai suoi antenati di milioni di anni fa. Sì, l’evoluzione non l’ha disturbato, se non in pochi dettagli di scarso interesse. Niente male per chi ha mosso i primi passi evolutivi a partire dal Mesozoico!

Forse cerca il fresco. Si sposta ancora, quasi trascinandosi. Decidiamo di allontanarci, di lasciarlo in pace. Un po’ temiamo per lui, può essere facilmente aggredibile, pur nella protezione dei suoi aculei. Ma la natura ha le sue regole. Per un po’ ci occupiamo d’altro. Dopo mezz’ora è ancora vicino alla casa. Decisamente non tiene conto di noi. Forse non se ne accorge affatto, è troppo indebolito. Si allontana di qualche metro, all’ombra di un cespuglio di alloro. È a quel punto che un amico, provvidenzialmente lì con noi, ha l’idea di avvicinargli una ciotola d’acqua, nell’ipotesi che il problema principale consista nella disidratazione. L’acqua è a un centimetro dell’animale, rannicchiato a terra, fermo, senza segni di vita. Ad un centimetro dal suo naso, e l’olfatto dei ricci è formidabile, basti pensare che il loro cervello è in gran parte dedicato alla interpretazione dei segnali captati di natura olfattiva. Ma non si muove e ormai pensiamo che non riuscirà più a farlo. Che è alla fine. E proprio quando decidiamo di tornare ad altre occupazioni, ecco che avvertiamo un debole movimento.

È una delle scene più commoventi, e decisamente insolite da vedere: il riccio beve. Uno degli animali più arcaici, preistorici, selvatici, sta bevendo dell’acqua in un piattino di modernissima plastica. E lo fa con vigore crescente, lo fa con la necessità e, ma è solo un’impressione, con gusto. Beve a lungo, si disseta, gli torna un po’ di forze. Sembra non voglia mai smettere, ma poi si discosta, riposa ancora un attimo. Nell’istante successivo prova a mettersi in piedi. Muove le zampette corte con maggiore decisione e, in breve, si allontana. Crediamo si allontani di poco, come aveva fatto nell’ora precedente. In realtà, scompare, non lo vediamo più, forse ha ritrovato la sua strada, la tana nel vicino sottobosco. Il riccio! Erano decenni che non ne vedevo uno. Eppure l’erinaceus europaeus ama i giardini e gli orti, e soprattutto è utilissimo perché si nutre di insetti.  La natura del riccio ha arricchito il lessico: tra i modi dire, chi non conosce chiudersi a riccio? Per quel suo modo, a scopo protettivo, di appallottolarsi. Metodo che funziona nei confronti di potenziali attacchi di altri animali ma che rappresenta il maggior pericolo per se stesso quando attraversa le strade. Di notte, vedendo delle luci arrivare, lui fa quello che sa fare per difendersi: si chiude, rischiando di farsi investire. Cosa che avviene con frequenza.

Il riccio (spesso considerato comunemente il porcospino) ha un ruolo anche nella letteratura: le favole di Gramsci ad esempio, “Ricci e le mele”, o la filosofia di Arthur Schopenhauer, come nella sua raccolta di scritti minori “Parerga e paralipomena”, dove i ricci sono un perfetto parallelo per parlare della giusta distanza tra le persone: se troppo vicine si possono ferire, se lontane si raffreddano (i rapporti). Tra alcuni popoli Nativi Americani, il riccio è il simbolo della calma, forse per quel modo di camminare che sembra non abbia mai fretta, come se, quel camminare, sia una maniera per indicare come affrontare i viaggi dell’anima. Nel corso dei secoli, e delle culture, il riccio ha rappresentato molte cose, talvolta in contraddizione. Per le antiche popolazioni greche e romane, era un simbolo dell’intelligenza, mentre nel medioevo rappresentava avarizia e cupidigia, addirittura la pigrizia. Nel mondo islamico antico il riccio non era ben visto: era un presagio negativo. Nella Persia aveva molto valore come simbolo di abbondanza e fertilità.  Ma il nostro piccolo riccio assetato, incontrato per caso in un pomeriggio estivo, tutto questo non lo sa. Gli auguriamo di recuperare le forze e tornare nelle notti a scorribandare tra orti e giardini.

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