L’intervista-Sandro Veronesi, Premio Strega 2020 con “Il colibrì”: «Il virus siamo noi»

di ELIANA NARCISI (ELIANA ENNE) –

Autore di romanzi, poesie, saggi, racconti, già vincitore del Premio Campiello e del Premio Viareggio, due volte Premio Strega, Sandro Veronesi con Il colibrì ci regala un romanzo che si apre come una finestra sulla vita attraversandone passato e presente e proiettandosi nel futuro. Una storia da leggere tutta d’un fiato che alterna alla narrazione piana ricca di dialoghi anche una serie di lettere, messaggi, cartoline, elenchi, il tutto in un susseguirsi di spostamenti temporali che coinvolgono ed emozionano il lettore.

Come ha maturato questa scelta narrativa?
Sapevo già che il mio protagonista avrebbe dovuto subire tanto dolore e non gli ho fatto sconti in tema di destino. Ho scelto la tecnica narrativa che lo rendesse più sopportabile a lui e al lettore. Mi sono sottratto alla tirannia cronologica del tempo e ho scelto di scrivere quello che volevo quando volevo, senza operare alcun montaggio a posteriori. Ho alternato la voce narrante, che è soggettiva, a documenti, telefonate, scambi di messaggi, che hanno una voce obiettiva e che funzionano da intercapedine fra un capitolo e l’altro. In questo modo, qualsiasi contrasto fra l’uno e l’altro viene magicamente distanziato e non crea danno.

Da dove nasce Il colibrì?
L’idea di un romanzo, in realtà, nasce prima del progetto, ha origine nelle parti insondabili dell’animo, nel subconscio. Quando risce a farsi luce, allora vuol dire che l’autore ha maturato un’urgenza comunicativa ed è il momento di dedicarsi alla scrittura. I romanzi sono posti, per scrivere Il colibrì ho impiegato quattro anni ed è stato come vivere per quattro anni in una casa. C’è un tratto comune con i miei lavori precedenti, tendo sempre a spargere molti elementi sul tavolo della narrazione indirizzandoli tutti in una direzione e lasciando però qualcosa da parte, nella cantina di quella casa. Per Il colibrì sono tornato a svuotare quella cantina, ho recuperato il materiale che era rimasto non trattato.

La vita di Marco Carrera è fatta di sospensioni temporali e costellata di perdite drammatiche, eppure lui non tocca mai il fondo. Possiamo definirlo un perdente che vince?
É la definizione del romanzo che dà Sartre e in cui mi rispecchio maggiormente. Marco Carrera è una persona qualunque, non è in prima fila nella politca e neppure nella professione, è un borghese che fa una vita tranquilla, non è un uomo esemplare, ha vissuto una serie di drammi, alcuni abbastanza consueti, altri direi innaturali. Lui riesce ad attraversarli per una serie di carratteristiche che non sapeva nemmeno di avere, impiega le sue energie per stare fermo, perché a volte è la cosa piu faticosa da fare ma anche la migliore.

Un romanzo in cui viene dato ampio spazio alle figure femminili, tutte seguono un percorso psicoanalitico di cui Marco Carrera subisce gli effetti. La definisce psicoanalisi passiva.
È un mio personale omaggio alla Coscienza di Zeno. Essere oggetto del percorso psicoanalitico altrui lo spinge a difendersi, negandone l’utilità. Penso in realtà che nel XX secolo la cultura psicoanalitica, al di là della clinica, ha preso velocemente il posto della filosofia.

Centrale nella sua vita è l’amore per Luisa Lattes, che a differenza di Carrera è una donna del nostro tempo, e il nostro tempo esige il cambiamento. Che tipo di rapporto hanno?
Il loro è un amore sospeso. Non è negato ma neppure vissuto, non è platonico ma neanche consumato. Un amore che ha incontrato molti ostacoli che avrebbe potuto travolgere e da cui, invece, rimane congelato. Funziona finché rimane a distanza. È un fatto che capita spesso. La maggior parte delle persone non sposa l’amore della vita. Magari ha una famiglia felice, ma non con il “grande amore”, che è grande finché rimane idealizzato.

Nel corso della narrazione compaiono elenchi di oggetti, appartengono alla casa di origine del protagonista, “lo sputo che aveva tenuto insieme suo padre e sua madre”. Che valore hanno per lui, uomo materiale in un contesto sempre più immateriale?
Marco Carrera perde le persone più importanti della sua vita, si accanisce sulle cose perche sono più docili, sono innocenti, sono le cose di famiglia che non appartengono piu a nessuno. Sono mobili, collezioni di libri, sono beni che gli arrivano quando non ne ha bisogno, potrebbe disinteressarsene, invece se ne prende cura come un Pastore. Non le abbandona. E quello che non gli riesce di fare con le persone.

Le pagine più intense sono legate al rapporto con la figlia. Non è la prima volta che tratta il tema della paternità. È difficile  essere padre?
Essere padri non è difficile, ammesso che uno voglia esserlo e non gli faccia paura questo ruolo. Se è qualcosa che vuoi, saranno i tuoi figli a suggerirti come comportarti in quella maniera magica che non ha molto a che fare con le parole, non quelle che usiamo noi adulti. Non esiste una scuola che ti prepari a diventare genitore, se è qualcosa che non vuoi allora la famiglia diventa un ricettacolo di sofferenza, se invece scegli di avere un figlio allora scopri che è la cosa più bella che ti possa capitare.

È noto il suo impegno civile e sociale, ha partecipato allo sciopero della fame contro il sovraffollamento delle carceri, ha promosso l’appello “Non siamo pesci” per chiedere il rispetto delle convenzioni internazionali e l’istituzione di una commissione d’inchiesta sulle stragi di migranti nel Mediterraneo. Avverte il disprezzo purtroppo dilagante nei confronti degli intellettuali?
Perfino Moravia, quando gli chiedevano quanto conta uno scrittore come lei, rispondeva «zero». Anche se hai vinto premi e vendi tanti libri, non è detto che la gente ti ascolti. Non mi interessa il potere, non uso mai i miei romanzi per veicolare messaggi politici. L’attivismo è un’altra cosa. Lo vivo da cittadino e faccio quello che mi sembra giusto fare. Sono uno che contribuisce a un progetto perché ci crede. Se poi la mia immagine pubblica può servire a incoraggiare altri a fare altrettanto, ben venga.

A marzo dello scorso anno ha partecipato al diario a staffetta del lockdown per il Corriere della sera. Ha scritto “gli esseri umani sono il vero virus”. Come vive la pandemia e questa nuova realtà di distanze sociali?
Una volta superata l’emergenza sanitaria, una volta superata l’emergenza economica, occorrerà affrontare un’emergenza psichiatrica. “Il virus siamo noi” l’ho detto in un momento di grande disperazione, facevamo 800 morti al giorno, per dire che l’essere umano si comporta da virus nei confronti del pianeta, conquista, consuma, distrugge. La seconda ondata che stiamo vivendo è peggiore della prima, è solo che l’attenzione mediatica si è spostata sul nuovo governo. Non so se riuscirò ad avere di nuovo fiducia nell’uomo. Quando vedo infermieri e medici che rifiutano il vaccino ma poi vanno in ospedale o nelle RSA a curare gli anziani e li infettano, perdo le staffe. Siamo virus anche nei confronti di noi stessi.

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