“Bella musica parmi il Cantar Bene”…Teatro e Musica alla Corte di Urbino

Il Palazzo Ducale di Urbino

di PATRIZIO PACI –

Le origini “moderne” del recitar cantando risalgono forse ad 80 anni prima della rappresentazione dell’Euridice di Jacopo Peri, realizzata a Firenze il 6 ottobre 1600, in occasione delle nozze di Maria de’ Medici con Enrico IV di Francia. Gli intermedi, eseguiti nel 1589 durante gli intervalli della commedia “La Pellegrina” di Girolamo Bargagli, occorsi alla Camerata de’ Bardi per mettere in pratica gli studi di Vincenzo Galilei sul recitar cantando e sulla tragedia greca, in realtà sono nati diversi anni prima e non a Firenze, ma alla corte degli Este a Ferrara verso la fine del 1400, quando i musici di corte ne iniziarono la produzione per inserirli nelle prime commedie tradotte in volgare, come la Cassaria (1508) di Ludovico Ariosto, con la prima scenografia bidimensionale prospettica dell’architetto Pellegrino da Udine. Isabella d’Este, abile e preparata musicista, andata in sposa a Francesco II di Gonzaga, trasferì questo nuovo concetto musicale a Mantova, ma anche Urbino subì l’influenza ferrarese, diventandone la succursale teatrale. Ferrara, Mantova e Urbino, un triangolo culturale alla base del concetto umanista che portò a scegliere la monodia accompagnata, come forma musicale più adatta alla recitazione. Non bisogna dimenticare, in questo periodo storico, la graduale affermazione del sistema tonale e la pratica piuttosto comune di eseguire il madrigale (soprattutto quello rappresentativo) cantando la melodia e sostituendo le altri parti polifoniche con il basso continuo, pratica in via di affermazione definitiva.

Ad Urbino, in occasione del Carnevale, il 6 febbraio 1513, in un salone del Palazzo Ducale, fu allestita La Calandria, commedia, ornata con musiche bizzarre, tutte nascoste et in diversi lochi, tradotta in volgare dal Cardinal Bibbiena, prologo, allestimento ed intermedi musicali di Baldassar Castiglione, sostenitore della linea classicistica degli umanisti nel privilegiare la monodia vocale con accompagnamento strumentale, considerata l’equivalente moderno del canto ad lyram, quasi anticipando il recitativo melodrammatico fiorentino. Un dialogo, descritto nel Libro del Cortegiano (1528) di Baldassar Castiglione, si svolge alla Corte di Urbino, presso il palazzo di Guidobaldo da Montefeltro: un gruppo di invitati trascorre la serata svolgendo un gioco di società colto, quello di formar con parole un perfetto cortegiano, ossia di costruire, attraverso le sequenze dialogiche dei vari partecipanti al gioco, un ritratto del perfetto modello dell’uomo di corte. La padronanza della conoscenza musicale, nonché l’abilità nel canto e nell’uso degli strumenti musicali, vengono delineati fin da subito dai dialoganti fra le discipline e le attività a cui il cortegiano deve sapersi dedicare, dopo l’abilità nell’uso delle armi e la conoscenza delle lettere. Si legge infatti come il perfetto cortegiano debba essere anche un musico, in particolare come debba essere sicuro a libro (ossia in grado di conoscere la partitura e la teoria musicale) e contemporaneamente come debba saper padroneggiare l’utilizzo di vari instrumenti. Queste competenze musicali vengono elencate e delineate nello specifico nel II libro, paragrafo XIII:

Bella musica parmi il cantar bene a libro (1) sicuramente e con bella maniera; ma ancor molto più il cantare alla viola perchè tutta la dolcezza consiste quasi in un solo, e con molta maggior attenzione si nota ed intende il bel modo e l ‘aria, non essendo occupate le orecchie in piu che in una sol voce, e meglio ancor vi si discerne ogni piccolo errore; il che non accade cantando in compagnia perchè l’uno aiuta l’altro. Ma soprattutto parmi gratissimo il cantare alla viola per recitare (2); il che tanto di venusta ed efficacia aggiunge alle parole, che è gran maraviglia.

(1) Cantar bene a libro inteso come cantare leggendo lo spartito musicale.
(2) Cantare alla Viola per recitare, inteso come cantare con la viola da pizzico, strumento simile al liuto, quindi cantare la melodia con accompagnamento del basso continuo.

Dunque un documento eloquente, su come si dovesse musicare il recitato, di parecchi anni precedente il Dialogo della musica antica et della moderna (1581) di Vincenzo Galilei, dove sono esplicate le tesi e le teorie sul recitar cantando fiorentino. Altro accenno viene fatto a Pesaro nel 1571 alla corte di Guidubaldo II Della Rovere, in occasione dell’arrivo di Lucrezia d’Este, quando in una commedia di Felice Paciotto furono inseriti degli intermedi, fra cui uno incentrato sulla figura di Orfeo, ruolo che imponeva un’esecuzione basata su una sorta di recitar cantando ante litteram.

Nonostante si sia dedicata agli intermedi molto più tardi, rispetto alle altre corti italiane, Firenze ha fatto la parte da padrone, in virtù del fatto che al contrario di Ferrara, Mantova ed Urbino, ha sempre dato grande risalto e visibilità agli eventi legati alla nascita del melodramma, inviando puntualmente alle stampe e a alle cronache del tempo i resoconti di Michelangelo Buonarroti (nipote del celebre scultore) sulle sfarzose feste medicee.

Ma Urbino possiede forse un primato, da sempre attribuito ai palcoscenici tridimensionali a scena fissa prospettica, realizzati dall’architetto Vincenzo Scamozzi nei primi teatri rinascimentali di Vicenza e di Sabbioneta: il pittore urbinate Girolamo Genga realizzò per La Calandria la prima scenografia tridimensionale prospettica, con quinte praticabili (fondali dipinti simili alle tavole urbinati). Da una descrizione dell’allestimento che Baldassar Castiglione inviò per lettera a Ludovico da Canossa, si deduce che la tavola urbinate della Città ideale, conservata nel Museo di Baltimora, abbia in parte ispirato la scenografia del Genga:

La scena era finta una contrada ultima tra il muro della terra e l’ultime case. Dal palco in terra era finto naturalissimo il muro della città con dui torrioni, da’ capi della sala: sul’uno stavano li pifari, su l’altro i trombetti: nel mezzo era pur un altro fianco di bella foggia. La sala veniva a restare, come il fosso della terra, traversata da dui muri, come sostegni d’acqua. La scena poi era finta una città bellissima, con le strade, palazzi, chiese, torri, strade vere: et ogni cosa di rilievo, ma aiutata ancora da bonissima pittura, e prospettiva bene intesa. Tra le altre cose ci era un tempio a otto facce di mezzorilievo, tanto ben finito, che con tutte l’opere del Stato d’Urbino non saria possibile a credere che fosse fatto in quattro mesi: tutto lavorato di stucco, con historie bellissime, finte le finestre d’alabastro, tutti gli architravi e le cornici d’oro fino ad azzurro oltremarino, et in certi lochi, vetri finiti di gioie, che parevano verissime; figure intorno tonde, finte di marmo, colonnette lavorate. Saria longo a dire ogni cosa. Questo era quasi nel mezzo. Da un de’ capi era un arco triomfale, lontano dal muro ben una canna, fatto al possibil bene. Tra l’architravo et il volto dell’arco era finto di marmo, ma era pittura, la historia delli tre Horatii, bellissima. In due cappellette sopra li dui pilastri che sostengono l’arco, erano due figurette tutte tonde, due Vittorie con trofei in mano, fatte di stucco. In cima dell’arco era una figura equestre bellissima, tutta tonda, armata con un bello atto, che ferìa con una hasta un nudo che gli era a’ piedi: dall’un canto e dall’altro del cavallo erano dui come altaretti, sopra quali era a ciascuno un vaso di foco abondantissimo, che durò fin che durò la Comedia. Finita poi la Comedia, nacque sul palco all’improvviso un Amorino di quelli primi, e nel medesimo abito: il quale dichiarò con alcune poche stanze la significazione delle intromesse, che era una cosa continuata e separata dalla Comedia. Dette le stanze e sparuto l’Amorino, s’udì una musica nascosa di quattro viole, e poi quattro voci con le viole, che cantorno una stanza con un bello aere di musica, quasi una oratione ad Amore.

Nel 1514 La Calandria fu replicata a Roma per Papa Leone X, con le scenografie di Baldassarre Peruzzi. Le commedie proseguirono poi a Pesaro, Milano e Firenze, dove venne rappresentata La Mandragola di Niccolò Machiavelli con intermedi a mò di canzonette e cori del madrigalista francese Philippe Verdelot, infine a Vicenza, nel 1585 in occasione dell’inaugurazione del Teatro Olimpico, costruito da Andrea Palladio e terminato da Vincenzo Scamozzi, dove venne rappresentato l’Edipo di Sofocle, musicato in alcune scene da Andrea Gabrieli, con cori che procedevano nota contro nota in senso omoritmico, assicurando la comprensione del testo. Nel 1590 a Sabbioneta venne inaugurato, in occasione del carnevale, il Teatro all’Antica, primo teatro moderno inserito all’interno di un edificio appositamente costruito, anch’esso progettato dallo Scamozzi che anticipa soluzioni architettoniche del successivo periodo barocco. Per l’occasione il Duca di Mantova Vespasiano costituì una compagnia di comici formata da giovani sabbionetani, stipendiati ed obbligati a recitare nella città ducale due mesi nel corso di ogni anno. Il duca diede loro il nome di “Confidenti” e il privilegio di esporre lo stemma ducale durante le recite, ovunque essi si recassero. La Camerata de’ Bardi a Firenze iniziò ad interessarsi del teatro in musica per lo svago di corte dal 1573, con le prime rappresentazioni nel 1589. La scuola napoletana  iniziò nei primi anni del 1700 ad inserire intermedi comici nei cambi scena dell’Opera seria, determinando la nascita dell’Opera buffa. Quindi si lasciano al lettore le dovute conclusioni, con un’amara riflessione sull’alta considerazione dell’educazione musicale, nell’età e nella società umanistico – rinascimentale e che dovrebbe essere ripresa nella nostra epoca, contrassegnata da un inquietante decadimento culturale.

(Bibliografia: Musiche nella storia. Dall’età di Dante alla Grande Guerra – Franco Piperno
Musiche in commedia e intermedi alla corte di Guidubaldo II Della Rovere Duca di Urbino – Franco Piperno
Musica e armonia a corte: la lezione di Castiglione – Giada Tecchio –  Enciclopedia Treccani
Il Libro del Cortegiano – Baldassar Castiglione)

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