Abusi sui minori, l’inquietante ricognizione di Pablo Trincia

di ALCEO LUCIDI –

SAN BENEDETTO DEL TRONTO – È solo della fine del mese di giugno l’ultima tristissima vicenda di abusi sui minori a Bibbiano in provincia di Reggio Emilia. Casi di maltrattamenti andati ben oltre i severi rimproveri ed estesi alle sevizie e le manipolazioni psicologiche. Alla separazione improvvisa dei bambini dalle famiglie naturali con provvedimenti di affido discutibili, addirittura, all’utilizzo dell’elettroshock – uno spettro che pensavamo avere relegato al Novecento e ai manicomi prima di Basaglia – per estorcere confessioni ai minori. In realtà, questa storia non svela, purtroppo, nulla di nuovo. Anzi, affonda le sue radici negli anni Novanta del secolo passato in una intricata e misteriosa serie di fatti che si sono dipanati proprio nella bassa modenese, ai confini con la Lombardia, non lontano da Reggio, tra i paesi di Massa Finalese e Finale Emilia. Lo racconta con i tratti della puntigliosa ricostruzione sociologica e giudiziaria, senza alcuna indulgenza alla reinvenzione narrativa, Pablo Trincia nel libro “Veleno” (Einaudi), che è stato al centro di un dibattito anche aspro e dell’attenzione dei media nazionali.

Trincia – di ascendenze paterne sambenedettesi, una madre siriana, laureato in Lingue e Letteratura Africane a Londra, giornalista e reporter, noto volto televisivo delle Iene – ne ha parlato ieri a Porto d’Ascoli, all’interno della rassegna degli “Incontri con l’autore” (quattordicesimo appuntamento della stagione), presso il cortile di Palazzo Vannicola, in lungo monologo che ha aperto squarci inquietanti sui rapporti familiari ma anche sulle responsabilità di chi dovrebbe sorreggerli e tutelarli.

In due paesi nell’aperta e vasta campagna emiliana, divisi da pochi chilometri ed una manciata di campi, case coloniche e tanta nebbia, un gruppo di famiglie viene sospettato, di punto in bianco, di fare parte di sette sataniche pedofile e di compiere nei cimiteri dei due borghi riti notturni guidati da un prete molto conosciuto della zona (figura singolare di sacerdote molto attivo tra i giovani, che per sbarcare il lunario fa il camionista).

Ad accusare adulti, parenti, fratelli sono gli stessi bambini (sedici in tutto), trasferiti in località protette nel volgere di un giorno ed assegnati ai servizi sociali (psicologi medici, neuropsichiatri) i quali li interrogano pesantemente, incalzando su dettagli e particolari raccapriccianti (presunti stupri, decapitazioni, occultamenti di cadaveri, finti riti neoromantici).

Nessuno però è insospettito o si accorge minimamente di quello che accade, con tanto di cortei di incappucciati vaganti per le poche vie di due paesi in cui praticamente si conoscono tutti. «Stranamente non vi sono testimoni ed i cinque processi che si celebrano nel tempo, con condanne anche pesanti ai danni di genitori e tutori, sono avvolti da una coltre di testimonianze contraddittorie, diverse, disparate», puntualizza l’autore.

Senza fornire facili giudizi, dopo approfondite ricerche, Trincia rimanda ad una realtà inquietante dove chi doveva vigilare sui bambini non è stato minimamente toccato dal sospetto (neanche degli ordini professionali, oltre che della magistratura, con il sostanziale riconoscimento della loro buona fede o in un clima di omertoso disinteresse) mentre a salire sul banco degli imputati sono state le famiglie stesse (magari meno abbienti, border line, marginalizzate) che hanno subito la dolorosa perdita dei figli, l’onta dell’ostracismo e della carcerazione.

Una storia dai contorni indefiniti che invita a riflettere su come la società si prende cura dei bambini, di quanto vengano garantiti in Italia i diritti dell’infante (già riconosciuti da una Convenzione delle Nazioni Unite del 1989 sottoscritta da quasi tutte le nazioni del mondo). I bambini dovrebbero essere lasciati liberi di crescere e la loro integrità fisica e piscologica sempre salvaguardata per non trasformarli in adulti deviati e perché non vinca su di loro lo spietato cinismo dei grandi.

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