L’albero di maggio e le sue sfide

di AMERICO MARCONI –

In quanti se lo ricorderanno? Ci svegliavamo bambini il mattino del primo di maggio e affacciandoci sul terrazzo vedevamo sopra a Montesecco l’albero di maggio. La notte del 30 aprile veniva interrato e legato un pioppo alto e snello, vicino ad altre piante o costruzioni. E svettava con una bandiera rossa in cima. Vi sarebbe rimasto per tutto il mese di maggio. Inutile nascondere che tra i vecchi possidenti c’era qualcuno che borbottava contro questa abitudine. Un altro albero di maggio stava sulla piazzetta dei Marconi accanto al forno comune per il pane. Andando verso San Benedetto se ne vedevano sulle colline. Era un giorno di festa amatissimo per noi giovani: non si andava a scuola e qualcosa di buono sarebbe stato apparecchiato in tavola. A tempo di mia nonna il primo di maggio si preparava lu ciavarró. Era una zuppa di legumi con fagioli, ceci, piselli, fave, orzo, granoturco e tutto ciò che madia era disponibile nella madia.

Tornando all’albero di maggio sarebbe un errore attribuirgli solo una valenza politica. In quanto piantare un albero nel mese di maggio è una tradizione antica e diffusa in tutta Europa. Spesso stava in mezzo alla piazza del villaggio e le piante potevano essere faggi ma pure abeti, pini, allori, betulle. Sovente lo stesso albero era chiamato Maggio. E portava appesi doni che dovevano essere conquistati con un’ardua arrampicata, come sul palo della Cuccagna. Questo pure ve lo ricordate? Era un palo alto un sei metri che veniva spalmato di grasso per renderlo scivolosissimo. In cima, su una ruota di legno, c’erano appesi una lonza, un prosciutto ed altri ben di Dio. Il primo che raggiungeva la ruota riceveva il regalo di maggior valore.

Nelle nostre zone c’era un autentico campione del palo della Cuccagna chiamato Fafò, terrore di tutti gli altri concorrenti. Era di statura bassa , abilissimo e spiritoso. Saliva il palo della Cuccagna con estrema facilità, senza aiutarsi con la cenere, ma aggrappandosi con mani e piedi. Come ho visto fare a certi ragazzi d’oriente sulle palme per cogliere noci di cocco. Fafò veniva chiamato anche per situazione di emergenza: se c’era da risalire una pianta molto alta con qualche ramo pericolante o quando la bandiera della colonia in via Ischia s’impigliò in cima all’asta metallica. Per questi problemi non si chiamavano i pompieri, ma Fafò.

A me, e sono certo a tanti lettori, mancano quegli alberi che invitavano ad affrontare difficoltà in un clima di festa e rispetto. Ma i tempi nuovi impongono nuove sfide: pianteremo ancora alberi di maggio, ma con la possibilità che mettano radici ed attecchiscano. In modo che restino e crescano a memoria del nostro impegno per la madre terra e le future generazioni.

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