“I Fratelli Karamazov”, Mauri e Sturno portano con successo Dostoevskij al Ventidio Basso

di ALCEO LUCIDI –

ASCOLI PICENO – Se è vero che Italo Calvino ricordava di come i classici fossero sempre attuali e trasponibili nella cultura di ogni tempo, senz’altro è per via del fatto che riescono a toccare i temi essenziali dell’esistenza e ad attingere alla profondità dell’animo umano. “I Fratelli Karamazov” di Dostoevskij appartiene a questo genere di opere che non conoscono età, che rinverdiscono il giardino della letteratura di ogni tempo. In questo capolavoro del pensiero filosofico vi è condensato l’uomo nella sua alternanza di luci ed ombre, miserie e slanci di bontà, dubbio e fede. Non a caso nell’imponente romanzo, dalla ariose descrizioni, ambientato nella Russia zarista di fine Ottocento, che segue le gesta all’inverso, amarissime e drammatiche, della litigiosa, travagliata famiglia Karamazov, uno dei nuclei centrali è l’interrogativo metafisico, l’assenza-presenza di Dio che resta alle volte celato all’uomo, incapace di vederlo e sentirlo nella stordente quotidianità degli affanni. Insomma, il “Dio Nascosto” di Pascal.

Fedör Pavlovic, il capofamiglia debosciato, ingrato, abietto che sposa due donne, per poi lasciarle morire di crepacuore a causa dei continui tradimenti, con cui ha tre figli, Dimitrij, Ivan e Aleksej, a cui si aggiunge un quarto, Smerdjanov, l’illegittimo, frutto della relazione con una donna demente, condensa la contraddittorietà dell’esistenza e vive in primis le conseguenze devastanti di un’amoralità debordante. In effetti, da peccatore incallito quale è, in parte anche devastato dal rimorso, continua imperterrito a chiedere di Dio ad Aleksej, il figlio che decide di seguire la vocazione spirituale presso il convento del carismatico starec Zosima – un venerando monaco ortodosso pieno di saggezza – a cui, nel corso del romanzo, tanto Pavlovic quanto Dimitrij fanno ricorso per ricomporre le loro incomprensioni, nate oltre che dalla sconquasso famigliare e la morte della prima moglie, dalla disputa per una donna, Grusenka, personaggio oltremodo turbato, esuberante, rancoroso.

Anche tra le pagine più famose dell’ultimo lavoro di Dostoesvkij, rimasto incompiuto e uscito a puntate sul “Messaggero russo” tra il 1879 ed il 1880 (lo scrittore morì a qualche mese dalla pubblicazione), ossia il racconto allegorico del “Grande Inquisitore” fatto da Ivan – il figlio scettico, razionale, disilluso – ad Aleksej –, dove si narrano delle vicende di pura invenzione, ambientate nella Spagna secentesca dell’Inquisizione, del confronto tra un attempato inquisitore e la figura di Cristo, tornano le stesse domande sulla fragilità umana di fronte all’insondabilità del mistero divino e alla permissione del male (Maritain).

Ora, come mettere assieme questo vorticoso insieme di voci, temi, riferimenti, risonanze, questa eloquente polifonia stilistica e narrativa – a detta del semiologo russo Michail Bachtin – all’interno di una realizzazione scenica? Attraverso la sapienza di un grandissimo attore, figura storica del teatro italiano, Glauco Mauri e del regista Matteo Tarasco, che assieme ne hanno curato l’adattamento, incrociando tra i tanti teatri italiani (“L’Eliseo” a Roma e “La Pergola” di Firenze) anche il nostro “Ventidio Basso” di Ascoli, venerdì 29 e sabato 30 marzo, in cui con piacere si è rilevata una discreta presenza giovanile.

Mauri non avrebbe neanche bisogno di presentazioni. Classe 1930 ha partecipato ad uno dei primissimi riadattamenti italiani dei Karamazov, prima per il teatro nel 1952, assieme a Memo Benassi, Lilla Brignone, Enrico Maria Salerno e, oltre un decennio dopo, per la televisione – i gloriosi sceneggiati della TV plasmata da Bernabei – con la regia di Sandro Bolchi (1969).

Mauri regge la scena ancora come un leone dall’alto dei suoi novant’anni (settanta passati sul palco per la cronaca). Tiene assieme un gruppo tutto sommato affiatato composto dall’ottimo Roberto Sturno (Ivan), Laurence Mazzoni (Dimitrij), Pavel Zelinsky (Aleksej), Paolo Lorima (lo starec Zosima), Luca Terracciano (Smerdjanov). La regia è snella, essenziale, funzionale alle cupezza, alla lancinante disperazione del romanzo in cui Dostoevskij non moralizza o pontifica – semmai si sforza di capire l’altro – limitandosi a gettare luce su squarci inquietanti dietro le quinte della realtà umana, dominata da quella che un grande teologo del Novecento, Don Italo Mancini, chiamò «teoria dei doppi pensieri», per rimarcare l’ambivalenza delle idee mai connotate da una sola chiave interpretativa ma gonfiate dall’ambiguità, dalla doppiezza, dalla dualità.

«Per ben due volte la nostra compagnia ha raccontato Dostoevskij – afferma Mauri – Dostoevskij non giudica mai: racconta la vita anche nei suoi aspetti più negativi con sempre una grande pietà per quell’essere meraviglioso e a volte orrendo che è l’essere umano».

Copyright©2019 Il Graffio, riproduzione riservata