“Ce senti cerqua?” Modi di dire, modi di essere

di GIAMPIETRO DE ANGELIS –

Ci sono cose che ci fanno sentire a casa ovunque siamo. Chi non ha provato un grande piacere nel chiedere una birra in un bar londinese, magari stentando la pronuncia, e sentirsi rispondere in italiano dal barista? Ci si sente immediatamente a proprio agio, con quel sentore di comunità viaggiante, di estensione del proprio giardino come se i confini fossero apparenti. E ancor di più ci fa sentire a casa ritrovare modi di dire, espressioni tipiche, forme dialettali. Ci apriamo con un sorriso, memore di un’adolescenza che riaffiora tutte le volte che può, nel sentirci dire “Ce senti cerqua?”. Espressione che non richiede una spiegazione, fa parte del nostro vissuto, almeno per chi è cresciuto nelle Marche e dintorni, soprattutto nell’ascolano. La quercia, albero secolare, tenace, imperturbabile, maestoso, in grado di crescere a dispetto di tutto e che, in un certo senso, è al di sopra di ogni cosa e sembrerebbe invincibile. Ma che dire della fatica del boscaiolo? Metaforicamente parlando (non vorremmo mai abbattere una quercia, per carità), il boscaiolo di un secolo fa, con i suoi mezzi manuali, impiegava tempo e un dispendio energetico notevole per cui, dopo tanto sforzo, poteva essere del tutto spontaneo affermare: «Allora, chi ha vinto, “ce senti cerqua?”».

Dunque, l’espressione è la forma liberatoria di affermare una soddisfazione dopo aver raggiunto un successo costato fatica, sforzi, determinazione, costanza, magari lottando contro l’incredulità generale. Generalizzando, la forma espressiva può essere usata nel gergo abituale per cui, tornando al bar londinese, dove un amico italiano convince l’altro a provare una determinata marca, nulla di più facile che dica, avendone vinta la resistenza e nel vederne l’apprezzamento: «Ce senti cerqua? Visto che è buona?». Regione che vai, espressioni che trovi. Talvolta note solo ai residenti, di difficile comprensione altrove, ma ci sono detti che hanno assunto notorietà estesa, sdoganando confini geografici e culturali e che, pertanto, offrono quella capacità di collante e di sentirsi parte di una comunità indipendentemente da dove siamo e con chi siamo.

La Toscana, pur patria di Dante e della nostra lingua italiana, è famosa anche per alcune tipiche espressioni, oltre che per arte e luoghi magnifici. Una per tutte: “maremma maiala”. Semplice, immediata, per nulla concettuale, senza particolare storia, senza significanze certe eppure ha avuto risonanza ben oltre i confini territoriali, probabilmente per essere comparsa in forma di intercalare comica in alcuni film o anche in canzoni popolari. Tant’è che oggi ognuno sa riconoscere l’espressione come qualcosa di comune e quell’effetto che dicevamo all’inizio, il sentirsi vicini a persone sconosciute per il solo fatto di sentir citato un detto popolare, ne risulta rafforzato.

E pensare che molti anni fa, negli anni ’50 e ’60 ad esempio, la scuola si trovava nel difficile ruolo di insegnare il corretto italiano a bambini che praticamente parlavano prevalentemente i dialetti locali. Impegno necessario ed essenziale in una nazione che stentava (ed ancora fa fatica) a sentire un’identità che sommasse periodi storici frazionati, contrapposti, culturalmente distanti. Oggi, al pari di alcune specie faunistiche, ci troviamo a dover “salvare” la ricchezza espressiva e l’immediatezza dei linguaggi locali che, pur non più necessari, sono comunque un bagaglio di ricordi, valori, tipicità, storia. Sono componenti, idealmente parlando, di un DNA antropologico inestirpabile.  Ci piace immaginare un popolo che sa esprimersi perfettamente in un italiano impeccabile ma che, all’occorrenza, tira fuori, con nonchalance, una bella frase dialettale, estrapolata dall’infanzia, sfoderando il migliore dei sorrisi. Sicuramente ne gioverebbero l’umore e l’empatia.

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