“Piceno d’Autore”, il dramma dei giovani secondo Umberto Galimberti

di ALCEO LUCIDI –

MONTEPRANDONE – Cala il sipario sulla nona stagione di “Piceno d’Autore” a Monteprandone con un ennesimo bagno di folla e la sfida, lanciata da parte del sindaco uscente Stefano Stracci, di un possibile, nuovo inizio per avviare anche in questo Comune una compiuta politica della cultura, che deve avere il suo peso. Gli ospiti d’onore della serata di chiusura sono stati Cinzia Tani, autrice di vari romanzi di successo, docente di scrittura creativa alla Luiss di Roma, volto noto della televisione italiana (forse qualche mattiniero ricorderà il “Caffè letterario” di alcuni anni fa su Rai Uno), insignita del Cavalierato della Repubblica e Umberto Galimberti, intellettuale poliedrico, con uno spettro di interessi di studio ragguardevole: dalla psichiatria alla psicanalisi, dall’antropologia culturale alla filosofia morale e della storia (ne è docente a Venezia all’Università “Ca’ Foscari” ininterrottamente dal 1976), dal giornalismo (ha collaborato con “Il sole 24 ore dal 1987 al 1995) alla sociologia (famosi almeno due sue volumi, tradotti in più lingue: L’ospite inquietante. I giovani e il nichilismo, Feltrinelli 2007 e I Miti del nostro tempo, 2009). Sempre per Feltrinelli ha curato un dizionario di psicologia ed è oggetto di una sistemazione complessiva, tuttora in corso, delle sue numerose opere in economica.

È proprio dal primo libro citato, ricollegato alla sua ultima pubblicazione La parola ai giovani. Dialogo con la generazione del nichilismo attivo (2018), che la Tani trae spunto per una serie di considerazioni sulla condizione delle nuove generazioni (tema particolare caro a Galimberti, che ha iniziato ad interessarsene sin dal suo incontro in Francia con lo psichiatra delle “passioni tristi” Miguel Benasayag nel 2005). Partendo da una frase di Nietsche contenuta nei Frammenti postumi (1885-1887), ossia del nichilismo come “ospite inquietante” ormai “alle porte”, poi rielaborata da Heiddeger e ripresa, tra gli altri, anche nei sistemi filosofici di Karl Jaspers e Oswald Spengler, Galimberti si chiede cosa spinge oggi i giovani alla demotivazione e la perdita di senso. Innanzitutto, ai giovani di oggi manca un fine perseguibile che li renda riconoscibili come individui accetti dalla società e come risorse da valorizzare; poi – incalza – “mancano delle risposte ai loro tanti perché”. Insomma, detta a denti stretti e con allarmato realismo, “i giovani non sanno perché stanno male”, ma vivono male.

Un’altra delle tante cause risiede nell’impossibilità di nominare il loro disagio, nell’angosciante mancanza di parole e nella dispersione del loro tempo – quello che sembra preoccupare maggiormente Galimberti – proprio nel fase di maggiore esplosione emotiva, erotica, creativa della vita di un uomo (tra i 15 ed i 30 anni). D’altronde, il grande linguista Mauro De Mauro, in un’indagine condotta ormai una decina di anni fa, notava come nel 1976 gli adolescenti conoscessero un numero discreto di parole pari a circa un migliaio, mentre, oggi, dopo quarant’anni, quell’idioletto si è ridotto a poco meno di 200 lemmi, rivelando un aridità do emozione ed una povertà di pensiero davvero impressionanti.

Ed ancora. Sappiamo perché circa 400 studenti all’anno si suicidano, oltre uno al giorno, perché nella ricca ed opulenta Svizzera (a Locarno) il tasso è cresciuto a ritmi superiori a quelli della Svezia? Sappiamo riconoscere davvero il volto del malessere giovanile? Se gli istituiti della famiglia, della scuola, delle pubbliche istituzioni, della società civile (perché di un male sociale si tratta) non sanno più rispondere a tali emergenze psicologiche, culturali, educative, siamo – riflette ancora inesorabilmente il filosofo – al “tramonto dell’Occidente”.

Le nazioni che hanno saputo sollevarsi e riscostruire un futuro sperabile, anche economicamente, sono state proprio quelle che hanno investito nella conoscenza (si veda la Germania, dove il 76% della gente legge contro appena il 3 dell’Italia, dati di un paio di anni fa) e rifondare il ruolo dell’istruzione. Viene allora al pettine un altro dei nodi dolenti italiani: il sistema educativo. Classi sovraffollate, insegnanti mal pagati e altrettanto mal formati o selezionati (per ognuno bisognerebbe attivare un test sulla personalità così come dei corsi seri di psicologia dell’età evolutiva per Galimberti), scuole chiuse e divenute esamifici, o la corsa ad ostacoli per prendere dei titoli spendibili sul mercato, non aperte alla condivisione degli scambi, alla socializzazione ma chiuse in schemi comunicativi e pedagogici autoreferenziali, non formano più la personalità umana, ma tutt’al più sfornano dei funzionari senza troppa coscienza civile e, soprattutto, perfettamente ignari delle loro potenzialità.

La figura del professore si è svalutata; ha perso in autorevolezza e riconoscimento sociale; è minata dalle stesse famiglie ingaggiate nella gara alla migliore riuscita dei profitti dei figli e completamente dimentiche dei problemi legati alla loro crescita sentimentale ed emotiva, alla caduta di autostima, all’indifferenza o l’egotismo indotto dalla “società del piacere” – di freudiana memoria – che li domina.

D’altronde, se è la tecnica a regolare i rapporti umani e professionali, prima ancora dell’economia e della politica – figuriamoci dell’etica dei costumi! – come stupirsi se i giovani preferiscono alla letteratura il telefonino, alla scrittura di lettere i social media, con tutto lo scadimento di contenuti, di forme concettuali che i nuovi mezzi della comunicazione malata (o comunque non guidata) comportano. La tecnica, che non ha fini, che deve funzionare e basta, ci vuole perfettamente supini alla sua volontà ed è “l’essenza della scienza”. “La scienza manipola il mondo attraverso l’operatività tecnica” e agisce per schemi concettuali a priori, dati una volta per tutte, muovendo un mercato dei consumi che è sempre più subdolo e sfuggente. Un mercato che agisce per immagini, le quali non hanno bisogno di decodifiche mentali, di piste interpretative, dell’innesco di meccanismi cognitivi, immaginativi e che quindi – continua Galimberti – “decelebralizzano”.

Vi sono antidoti alla decadenza dell’Occidente, già anticipata oltre un secolo fa da Nietsche? O siamo costretti a vivere i ricorsi storici passivamente? Un’alternativa ci sarebbe e passa per la ricostruzione dei rapporti umani, il riconoscimento dell’altro, il dialogo con i figli per creare dei modelli, la rinascita della scuola come luogo di formazione di persone e come spazio di responsabilizzazione sociale, in cui finalmente i ragazzi possano sentirsi al centro di un progetto, evitando lo spaesamento di un mondo che non li ri-conosce e ri-comprende (preferiscono vivere di notte, nella vuotezza di “un’eterno presente”), che non li accoglie (si rifugiano nelle droghe), che li devia (l’analfabetismo e lo sdoppiamento affettivi moltiplicano i casi di depressione e schizofrenia). Dovremmo agire tutti assieme con l’antico senso del dovere delle precedenti generazioni perché, al di là di ogni ottimismo esasperato, di ogni cieca fiducia in un progresso sregolato, è della pelle dei nostri figli che parliamo.

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