Enrico Vanzina fa sorridere e commuove la Palazzina Azzurra

di ALCEO LUCIDI –

SAN BENEDETTO DEL TRONTO – Speravamo tanto che la serata con Enrico Vanzina fuoriuscisse dal cliché delle solite presentazioni e siamo stati accontentati. L’autore, sceneggiatore, regista, corsivista del Messaggero si è concesso al suo pubblico in maniera garbata, ironica, divertente e, a tratti, struggente. D’altronde una cosa che non piace a Vanzina è quella di fare finta, di parlare per artifici, di velarsi troppo. Un lutto recente – la scomparsa dell’amatissimo fratello Carlo con cui ha girato quasi una sessantina di film – non poteva non lasciare tracce profonde, ma quell’evento drammatico in cui – confessa l’autore – sono stato “a diretto contatto con la morte per intere settimane” non ha scalfito l’arguzia, la lucidità intellettuale, l’intelligenza del cuore di un indiscusso protagonista della scena culturale romana dell’ultimo mezzo secolo.

Il corteo di ricordi di Vanzina, riproposti con il gusto innato della narrazione, è un’impressionante galleria di “mostri sacri” del cinema ed anche della letteratura italiana del Novecento: l’amica e solidale Suso Cecco d’Amico, Age e Scarpelli (conosciuti grazie al padre Steno), Federico Fellini, Alberto Sordi, Totò, Vitaliano Brancati, Ennio Flaiano. A proposito di Flaiano, a cui l’adolescente Vanzina chiede perché si scrive, il grande intellettuale abruzzese risponde: “per sconfiggere la morte”.

“Le sere a Roma” (Mondadori), il primo romanzo di Vanzina, che, nel corso della sua vita, si è misurato con decine di sceneggiature (oltre 100) e circa 4000 articoli (prima di passare al Messaggero, diretto da Pietro Calabrese, “un gigante”, era stato responsabile della cronaca letteraria e di costume del Corriere della Sera diretto allora – siamo nel 1990 – da Paolo Mieli), è un condensato delle suo percorso di scrittore, trascorso tra cene mondane, nottate in redazione, corse tra i set e la scrivania di casa alla ricerca dell’ispirazione giusta (soprattutto per i finali, così di difficili da scrivere!).

C’è nel libro, presentato all’interno della rassegna “Incontri con l’autore”, venerdì 27 luglio, una nostalgia irriducibile per la Roma delle notti della “Dolce Vita”, dei caffè aureolati di mito di Via Veneto, dove si discuteva animatamente tra artisti, dei deliziosi terrazzi, delle innumerevoli cupole, delle signorili altane e, dall’atro, la desolante condizione della Roma di oggi “da basso impero”, “che avanza senza più consapevolezza del suo valore”: più che una capitale europea un caotica metropoli mediorientale (con i suoi angoli sporchi, i marciapiedi trasformati in parcheggi, le strade ridotte a colabrodi). Dunque, un piccolo ritratto di Roma e una nascosta indagine sociologica che sale dalle pagine sapide di questo romanzo, composte in uno stile colorito e sorvegliato, di una levigatura classicheggiante.

Federico, il protagonista, ritrovatosi, suo malgrado, nel bel mezzo di un omicidio – quello di Domenico Greco che, su invito di un conoscente, il maggiore agente di cambio di Roma, Roberto Bassani, si impegna ad aiutare per entrare nel mondo del cinema – è anch’egli uno sceneggiatore e l’alter ego di Vanzina. Invischiato in torbide storie sentimentali, in presunti, morbosi innamoramenti, tra personaggi storici del cinema e massaggiatrici brasiliane, il personaggio principale è mosso dal bisogno di dimostrare la propria innocenza, aiutato dall’integerrimo commissario Margiotta e da Maselli, un esporto di “nera”, con alle spalle un potente affresco sulla società italiana ed un profonda riflessione sul Tempo. Il tutto in un amalgama narrativo di raro equilibrio.

Copyright©2018 Il Graffio, riproduzione riservata