Il disco della settimana, Kronos Quartet & Laurie Anderson – Landfall

di PAOLO DE BERNARDIN –

Confesso di aver pianto ascoltando tanta bellezza. Si sono accavallate le sequenze di “Apocalypse now” di Coppola sovrastate dagli assordanti elicotteri e dalle note di “The End” dei Doors, tanto da riscoprirle nei brani finali, “Helicopters hang over downtown” e “Old motors and helicopters” di questa magia chiamata “Landfall”,  ma anche le note leggere e angoscianti del rock dei Calexico nel loro disperato “Valzer incondizionale”, canto del cigno del mondo contemporaneo. L’elaborazione di questo suono parte dall’ormai lontano 2012, anno disastrato dal passaggio dell’uragano Sandy che ha distrutto la quotidianità di Laurie Anderson con i gravi danni alla sua casa a Manhattan. Con gli amici del Kronos Quartet la Anderson ha iniziato un lavoro di scrittura complesso ed elaborato come una vera e propria partitura da healing music, da musica terapeutica che rimanda agli Gnawa del Marocco o al quawwali pakistano. Un vero e proprio training autogeno che vede oggi la luce in un’ora di profonda e sublime bellezza. Non è da escludere tra tanto dolore anche la scomparsa di suo marito, Lou Reed, ma la grande arte sperimentale della Anderson riesce a spezzare ogni morsa di pianto e a riequilibrare attraverso il suono e le parole tutti gli accadimenti negativi della vita. Quasi insaziabilmente onnivora, Laurie, con questo lavoro, ha pianificato l’uscita di un magnifico volume per la Rizzoli Skira intitolato “All the things i lost in the flood: essays on pictures, language and code”, raccogliendo scritti, racconti e immagini di quei terribili momenti attraversati dal volo dell’angelo nero. Nonostante il Kronos sia nato a Seattle-San Francisco il suo è un suono indissolubilmente legato a New York (nessun’altra città americana potrebbe sostenerne il muro del suono creato da quegli archi e dai loop elettronici tratteggiati a mo’ di ricamo tra i 30 brani del disco). Il suono totale di “Landfall” attiene a quella scuola polacco-baltica tanto cara al più celebre quartetto d’archi del mondo contemporaneo ma l’arte di Laurie Anderson è penetrante e si adagia perfettamente tra le coltri calme e spesso tristi di tutto il lavoro. La voce appare quasi per miracolo dopo otto minuti nella breve “Our streets is a black river” ma è sempre più penetrante fino a raggiungere l’Everest magico della lunga “Nothing left but their names”, triste catalogo della distruzione dell’uomo e del tempo che torna alla fine in forma di oggetti fluttuanti nel gran mare dell’inondazione. “Landfall” è un vero e proprio viaggio in uno stato mentale inconscio ma prima di essere disco è anche uno spettacolo di magia sonora che ha girato il mondo in un lungo ed esaltante show multimediale da Londra all’Australia, dal Canada al Texas. Quasi tutte le partiture sono nate per viola soltanto ma la genialità del quartetto di David Harrington, vivo e vegeto dal lontano 1973, ha trasformato tutto il lavoro in un viaggio profondo come una lacerante ferita che, miracolosamente, si rimargina al termine dello spettacolo come un vero e  proprio esercizio autoterapico. Il mix di parole e musica che da sempre affascina Laurie Anderson raggiunge qui un livello di incredibile grandezza attraverso la magia di un’artista unica al mondo che usa la tecnologia in chiave assolutamente romantica e interiore tanto da diventare più alchimista che musicista. Un disco capitale e imperdibile.

STANDARD
 (La storia delle canzoni)

You’ll never know (Gordon-Warren) 1943

Non saprai mai quanto mi manchi, non saprai mai quanto ci tenga a te. Se anche ci provassi non riuscirei a nascondere il mio amore per te. Sei andata via e il mio cuore è partito con te. In ogni preghiera pronuncio il tuo nome. Non so se ci siano altri modi per dimostrarti che ti  amo, giuro che non lo so. E se non lo sai adesso non lo saprai mai

Sul divano, a casa di Giles (Richard Jenkins) la sua cara amica Eliza Esposito (Sally Hawkins) accende la Tv e sintonizza il canale in bianco e nero sulle immagini dell’attrice e cantante Alice Faye che canta “You’ll never know”. E’ una delle sequenze iniziali del bellissimo e poetico “La forma dell’acqua” di Guillermo Del Toro. La canzone viene riproposta nella seconda parte del film quando la Hawkins, donna delle pulizie muta, sogna di recuperare la parola e di cantare ballando col suo adorabile mostro (Doug Jones) prima di essere rieseguita per la terza volta, sui titoli di coda, dalla splendida voce del soprano Renée Fleming. Si tratta di un bel tuffo tra le note di una vecchia canzone che vinse l’Oscar nel 1943 diventando uno dei temi più popolari del periodo bellico. Il film in questione era “Hello Frisco hello”, vero e proprio spettacolo musicale diretto da Bruce Humberstone che riprendeva uno spettacolo del 1915 intitolato “Ziegfeld Follies of 1915”. In realtà il film riprese il vecchio tema ma rielaborando il tutto e costruendolo ex novo. Nonostante la grande popolarità Alice Faye non incise mai quella canzone pur eseguendola sempre nei suoi concerti. A riesumare il tutto fu il grande compositore Harry Warren, pseudonimo di Salvatore Antonio Guaragna (New York, 1893-Los Angeles, 1981) il quale, reduce da due grandiosi successi dei due anni precedenti, “Chattanooga Choo Choo” (1941) e “I’ve got a gal in Kalamazoo” (1942) e con l’aiuto del paroliere Mack Gordon ridefinì “You’ll never know” per un successo clamoroso, grazie anche al lancio della stessa Alice Faye che nel film cantò al telefono per la prima volta quella canzone. Dato il grande successo Alice Faye ripropose la stessa canzone l’anno dopo in un musical della Fox intitolato “Four jills in a jeep” e le vecchie sequenze furono riproposte 32 anni dopo nel film “Alice non abita più qui” (1974) di Martin Scorsese interpretata dal premio Oscar Ellen Burstyn. Nel 1943 fu riproposta nel film “Lady be good” dalla voce di Ann Sothern.
La versione discografica di maggior successo su l’interpretazione di Dick Haymes che durante gli anni bellici conquistò la classifica americana vendendo oltre 1 milione di copie ma fu subito seguita dalla versione di Frank Sinatra che rimase ben 4 mesi in classifica. Contemporaneamente una versione strumentale eseguita dall’orchestra di Willie Kelly sbaragliò la concorrenza prima del sopraggiungere, dieci anni dopo, dell’orchestra di Harry James nella quale primeggiava la superba voce di Rosemary Clooney. Ne furono eseguite poi versioni country ad opera di Jim Reeves e Lew De Witt, Vera Lynn, Connie Francis, Jo Stafford, Steve Lawrence, Brenda Lee, Conway Twitty, Doris Day, Timy Yuro, Joni James, Eddie Fisher, Bobby Vinton, Bobby Darin, Nat King Cole, Dorothy Lamour, Al Hibbler, Bing Crosby, Eartha Kitt, Johnny Mathis, Ginger Rogers, Shirley Bassey, i Platters ed Ella Fitzgerald.
Una curiosità da rimarcare. La canzone fu la prima in assoluto eseguita nel 1955 a 13 anni dalla grande Barbra Streisand, ospite dello show televisivo di Judy Garland. La stessa Streisand riprese quelle note nei concerti del 1988 offrendo al pubblico un duetto virtuale con la sua giovanissima voce. Tra le partiture orchestrali non dimentichiamo quelle di Ray Conniff, Frank Chacksfield, Henry Mancini, tra quelle jazz di “You’ll never know” vanno ricordate certo quelle di Dave Brubeck, John Pizzarelli e Red Garland. Tra le versioni più moderne, infine, ricordiamo quelle di Bernadette Peters, Roberta Flack, The O’Jays, Mina, Michael Bublé, Rod Stewart e Diana Krall.