Il disco della settimana – John Surman, Nelson Ayres & Rob Waring – Invisible threads

di PAOLO DE BERNARDIN –

A metà degli anni Sessanta John Surman aveva iniziato a suonare il sax soprano ed il clarinetto basso nella formazione di Mike Westbrook tra le incertezze delle etichette e dei generi ma sempre all’interno di un jazz di avanguardia. Inglese del Devonshire, Surman iniziò a frequentare così la crema degli artisti di sperimentazione come Barre Philips, Stu Martin, Alan Skidmore, Ronnie Scott, John McLaughlin e Albert Mangelsdorff. Nel 1972 lasciò tutti di stucco con la realizzazione di un prezioso lavoro tutto da solo, “Westering home” con l’aiuto dei primi loop elettronici  la cui modernità è evidente persino ai nostri giorni. Una vita intera in attività musicali a fianco di musicisti prestigiosi come Alexis Korner, Miroslav Vitous, Paul Bley, Lester Bowie, Barry Altschul, Harry Beckett, Anouar Brahem, Gil Evans, Elvin Jones, Bill Frisell, Paul Motian, Thomasz Stanko, Misha Alperin, Richard Galliano ha permesso al gigante del saxofono di incidere un centinaio di dischi ultimo dei quali è questo stupefacente e appassionante “Invisible threads”. Alla corte di Manfred Eicher, illuminato boss della prestigiosa ECM di Monaco, Surman ha trovato il suo habitat più naturale nel quale il suono è parte integrante della persona e della natura. Ricche sono anche le sue collaborazioni con il teatro e la danza (Carolyn Carlson) nella quale la sua ricca spiritualità, la ricerca melodica e l’improvvisazione incontrano alcune delle menti più geniali della coreografia e del palcoscenico. Mai staccatosi dalle sue radici popolari e dall’ambiente agreste della sua terra, Surman ha viaggiato tracciando altre storie con altri compagni di viaggio. E’ il caso di questo lavoro nato dall’incontro e dall’amore per la musica brasiliana di Nelson Ayres (eccellente pianista che ha collaborato con Airto Moreira e Milton Nascimento) conosciuto durante una tournée sudamericana ma anche dalle emozioni sonore create dal vibrafono di Rob Waring, americano sbarcato ad Oslo e collaboratore di Mats Eilertsen il quale è entrato direttamente nello spirito etereo di Surman. Ad eccezione di “Summer song”, composta da Ayres, la dozzina di brani nasce dalla fantasia di Surman e dalla sua straordinaria sensibilità a cominciare dall’apertura intensissima di “At first sight”.Tutto il disco è una danza di ombre e crepuscolo, di primi colori di un mondo che rinasce arrossato all’orizzonte da un sole che sposa brevi cadenze di J.S. Bach dialoganti tra sax, pianoforte e vibrafono. E’ un tuffo nell’ingenuità e nella meraviglia (“Autumn nocturne”). Musica come respiro e aliti delicati di una rarefatta brezza infinita nella quale l’intesa tra i tre musicisti ha davvero dello straordinario appesa com’è a quei fili invisibili richiamati dal titolo del disco. Un brano come “Byndweed” rimanda al silenzio di cristallo di Gary Burton e Chick Corea ma scegliere qui è difficilissimo. E musica che equivale ad un respiro vitale, a bellezza pura fuori da ogni genere e da ogni schema. Liquida e cristallina. É pura, immobile, immancabile emozione.

STANDARD
(La storia delle canzoni)

Fly me to the moon (Howard) 1954

Fammi volare fino alla luna, fammi giocare tra le stelle, fammi vedere se è come saltare su Giove o Marte, in altre parole, prendimi la mano, in altre parole, baciami. Riempimi il cuore con una canzone e fammi cantare per sempre. Sei tutto ciò che ho sempre atteso, tutto ciò che venero e adoro, in altre parole, per favore fa che sia vero. In altre parole, ti amo”.

Bart Howard (Burlington, Iowa, 1915-Carmel, New York, 2004), nome d’arte di Howard Joseph Gustafson, è stato un pianista jazz passato alla storia per questa canzone nata col titolo di “In other words” (nonostante nel suo carnet ci fossero altre 50 belle canzoni. Giovane pianista nel club “Blue Angel” di New York, Howard si distinse nella sua giovane carriera per essere l’accompagnatore pianistico di importanti artisti come Mabel Marcer, Johnny Mathis ed Eartha Kitt. Nel famoso locale di Manhattan fece lanciare il brano dalla sua amica, dotata di notevole voce sopranile, Felicia Sanders che fu la prima a cantarla ma non ad inciderla. La Sanders era già popolare per aver inciso l’anno prima con l’orchestra di Percy Faith il tema dal film “Moulin Rouge” sulla vita di Toulouse-Lautrec. Toccò a Kaye Ballard, un’artista della Decca, la prima incisione ufficiale ma la canzone non ebbe nessun successo discografico fino a quando fu ripresa dalla grande Peggy Lee all’Ed Sullivan Show. Per strani giochi del destino e con l’arrivo del programma Nasa per la conquista dello spazio Bart Howard cambiò, su suggerimento di Peggy Lee, nel 1962 il titolo al brano che divenne così “Fly me to the moon” (In other words)” e come per un colpo di bacchetta magica entrò facilmente nell’immaginario collettivo e nel repertorio di moltissimi artisti. Con l’esplosione della bossa nova la canzone ebbe una vera e propria rinascita. Fu incisa anche da Astrud Gilberto ma la versione di maggior successo fu quella dell’orchestra del pianista Joe Harnell, “Fly me to the moon bossa nova” che ricevette il Grammy Award come migliore incisione strumentale del 1963 (https://www.youtube.com/watch?v=Y3Dts7a4uqI). Harnell, famoso per essere allievo di Nadia Boulanger nonché successivamente accompagnatore in concerto di Glenn Miller, Judy Garland, Maurice Chevalier, Marlene Dietrich e Peggy Lee ottenne ulteriore fama ad Hollywood come autore e arrangiatore di molte musiche da film. La canzone entrò presto nel repertorio di celebri cantanti come Chris Connor, Johnny Mathis, Portia Nelson, Eydie Gormé,  Nancy Wilson, Nat King Cole, Brenda Lee, Ella Fitzgerlad, Diana Washington, Annie Ross, Blossom Dearie, Julie London e Sarah Vaughan ma la spinta maggiore la ottenne dall’incisione di Frank Sinatra che ne fece un vero e proprio cavallo di battaglia al punto tale che la Nasa portò la sua incisione persino nello spazio con l’allunaggio dei Buzz Aldrin nel 1969. La versione di Sinatra del 1964 con l’orchestra di Count Basie e i fantastici arrangiamenti di Quincy Jones resta ancora oggi una pietra miliare. Da Sinatra in avanti le versioni di moltiplicarono fino a superare il numero di 300. La canzone fu parte integrante di telefilm e serial televisivi da “WKRP in Cincinnati” a “Sesame street” senza dimenticare le colonne sonore di film come “Wall street” di Oliver Stone (1987), “Space cowboys” di Clint Eastwood (2000), “Il diario di Bridget Jones” di Sahron McGuire (2001) e “Robocop” di José Padilha (2014). Tradotta in tutto il mondo dall’Europa al Giappone ricordiamo due splendide versioni italiane come “Portami con te” nel 1968 per la voce di Fausto Leali (e testo di Mimma Gaspari) e “Fly me to the moon” di Mina nel 1972 alla Bussola di Viareggio. Tra le incisioni squisitamente jazz del brano ricordiamo quelle di Oscar Peterson, Stan Getz, Jack Jones, Freddie Cole, George Shearing, Errol Garner, Kenny Burrell con Ray Brown, Roy Haynes con Roland Kirk, Ray Brown con Benny Carter, Wes Montgomery, Al Hirt e quella recente di Joe Lovano del 1996.  Non trascurabili sono le versioni latine di Xavier Cugat, Edmundo Ross, Trini Lopez e Ana Caram. Entrata anche nel repertorio soul, “Fly me to the moon” ebbe magnifiche versioni ad opera di Bobby Womack e Marvin Gaye nonché, ai giorni nostri, dalla magnifica voce di Amy Winehouse. Recentemente è entrata nel repertorio di Sting con Chris Botti, Michael Bublé, Rod Stewart, Jason Mraz e per finire alle sofisticate recenti versioni dei Westlife, Diana Krall, Groove Armada e Ben l’Oncle Soul.