Il teatro e il risveglio di Siddharta

di GIAMPIETRO DE ANGELIS –

L’infinito laboratorio che è in ciascuno, spesso crea intenzioni che non salgono al livello delle azioni. Ognuno esperimenta fantasie vivaci ma che non sempre trovano l’espressione, sogni elaborati che restano onirici e invisibili, amicizie virtuali in luoghi che sono archetipi mentali, e voci narranti che in verità restano silenti e racchiuse nello scrigno dell’inconscio.
Eppure, tra i tanti percorsi possibili, ce n’è uno che, per il gioco dei paradossi e del contrasto, rappresenta uno spazio di efficaci e liberatorie dinamiche. Là, dove si esercita l’apparente finzione, si esprime la realtà. Il palcoscenico è sempre la verità.
Per parlare di questo, mi lascio andare nell’immaginario di una sceneggiatura.
Una coppia cammina in un lungo viale, bellissimi platani ai bordi, prati tutt’intorno e, in lontananza, la sagoma urbana di una casa. Lui e lei, mano nella mano, non tanto per amore quanto per una consumata abitudine che li sta logorando, parlano del più e del meno, tendendo al meno, in un rassegnato ritorno ai propri pensieri nel mentre muovono parole che non dicono nulla. Ed ecco, uno di quegli attimi che cambiano le cose. Una foglia si stacca dal suo alto ramo, volteggia a lungo, delicatamente e lentamente. Lui la segue con lo sguardo, si perde in quella danza, in quel planare dolce e dimentica cosa stava pensando e dicendo. Resta sospeso nel tempo e quando torna in sé recita ad alta voce, affinché lei possa partecipare, una citazione che gli torna in mente, di David Lynch:
“Quanto è magico entrare in un teatro e vedere spegnersi le luci. Non so perché. C’è un silenzio profondo, ed ecco che il sipario inizia ad aprirsi. Forse è rosso. Ed entri in un altro mondo”.
Forse il sipario è rosso, forse blu o altro colore e poco importa se sei al di qua del palco o se ti muovi sopra. Sei in quell’unicum fatto di comune sentire, c’è quel bisogno, non troppo misterioso e spiegabilissimo, di entrare in un altro mondo: quello che, nel profondo di ciascuno, è riconosciuto ed è il proprio. Forse pensa a questo la donna quando anche lei lascia affiorare un ricordo. Ripensa al fiume e al giovane Siddharta morso dal bisogno di consapevolezza. L’attimo dell’ispirazione viene descritto così da Hermann Hesse:
“Ed ecco, da riposti ricettacoli della sua anima, dalle remote lontananze della sua vita affaticata, palpitò un suono. Era una parola, una sillaba, ch’egli pronunciava senza rendersene conto…e nell’istante in cui il suono Om sfiorò l’orecchio di Siddharta, immediatamente si risvegliò il suo spirito assopito…”
Siddharta entrerà in sintonia con quella parola, sapendo che si dovrà confrontare con tutte le altre. L’attore ha un compito in più: deve compararsi anche con l’espressione associata, il gesto, l’azione. Deve trovare in sé, nella sua storia, nella sua esperienza, quel tono, quella sfumatura. Nulla può essere inventato, l’attore non finge, cerca sempre in se stesso.
La recitazione non è simulazione, è la rappresentazione di un vissuto. Solo ritrovandolo nella propria anima, nell’IO più recondito, si potrà rappresentare il personaggio. Nell’apparente finzione si svela la verità che lo riguarda, nell’immedesimazione l’artista scopre i suoi lati nascosti.
Il teatro è lo specchio riflesso, è conoscenza di sé, è crescita personale. É riconoscere ciò che non era del tutto svelato. É aprirgli la porta e lasciarlo accomodare.
C’è un ultimo aspetto. L’attore, dilettante o professionista che sia, vive l’immenso piacere delle prove, quell’entrare e uscire dai personaggi altrui, oltre che i propri. Ha il piacere di “sentire” il collega mentre lavora sul ruolo assegnatogli. Ha il piacere di giocare ad essere sia spettatore sia interprete.
E quando infine ti accorgi che non c’è più differenza tra il salire e lo scendere dal palco, sai che lo spettacolo funzionerà. Il personaggio non è altro da te. Hai trovato la tua misura, hai conosciuto un aspetto di te, l’hai osservato e l’hai accolto donandolo a tutti”.