Il disco della settimana, Naomi Wachira – Song of lament

di PAOLO DE BERNARDIN –

Nonostante il silenzio generale della stampa europea Naomi Wachira va avanti a testa bassa con una caparbietà di donna abituata a lottare per una speranza di cambiamento. Poco più che 40enne Naomi, titolare di un brillante disco omonimo d’esordio nel 2014, dopo un paio di EP, fa il suo rientro sul mercato discografico con un altro lavoro degno di nota composto di una decina di canzoni nelle quali usa lo swahili e altri dialetti della sua amata terra, il Kenia. Trasferitasi dopo le scuole superiori dalla calda Africa al clima totalmente diverso di Seattle, nel nord ovest degli Usa, Naomi ha da poco ricevuto la cittadinanza americana ma non ha mai dimenticato le sue origini. Registrato nello storico studio London Bridge della sua città con la produzione di Eric Lilavos si fa accompagnare da bravi musicisti come Masa Kobayashi, Dave West, Owuor Arunga, Andrew Joslyn e Teo Shantz e ci regala un altro pugno di canzoni accattivanti nelle quali rivivono echi di Tracy Chapman, Sade, Ani Di Franco e Miriam Makeba che le hanno valso il titolo di folksinger dell’anno. Tra le pieghe della sua voce si percepiscono origini musicali comuni degli afroamericani vale a dire canti di chiesa e vecchie tradizioni familiari di canto in famiglia e di gruppi corali ai tempi della scuola, tutte esperienze che le sono servite per la sopravvivenza artistica nel suo primo periodo americano. Nella sua scrittura non è mai scomparsa la memoria dell’infanzia a e della sua terra e la lotta di autoaffermazione è coincisa magistralmente con la sua scrittura divenuta negli anni sempre più matura e compiuta. Le relazioni umane sono il centro dei testi delle sue belle canzoni che, lingua a parte, non rimandano certo alla musica africana bensì alle migliori produzioni americane di folk rock nonostante il suo sogno sia di suonare con giovani artisti kenioti del calibro di Wangeci, Sara Mitaru e Fena Gitu. E’ una sfida continua quella di Naomi Wachira. Nella sua voce cristallina si spezzano corde vocali che narrano di lotta e difficoltà, di perdite e di  dolore e in sostanza riflettono la sua grande umanità (“Our days are numbered”, “Beautifully human” col suo accattivante ritmo reggae richiamata da “I am because you are”, la magica “Heart of a man”, l’intima e splendida “Where is god?”, la breve e intensa “Farewell”, la coloratura jazz di “Run, run, run”, retta dalla tromba di Awuor Arunga, la tipica chapmaniana “Murathimwo” e, in chiusura, “Think twice” nella quale la resilienza della donna forte fa fronte alle difficoltà della vita). Le splendide canzoni di Naomi Wachira entrano lentamente nella testa dell’ascoltatore e lo conquistano facilmente. In fondo Naomi, grazie al suo spirito di donna indipendente, continua a ripetere: “Continuerò sempre a lottare perché conosco perfettamente il valore della lotta”.

STANDARD
(La storia delle canzoni)

Nature boy (ahbez) 1947

C’era un ragazzo, un sognatore, andò per terra e per mare, aveva gli occhi tristi ma era molto saggio e un giorno incrociò la mia strada e mentre parlavamo di pazzi e di re mi disse: “La cosa più grande che tu possa imparare è amare e lasciarti amare”

I grandi autori che passarono nel celebre Brill Building di New York (la costruzione di Broadway che dal 1931 ospitò, sulle ceneri del Tin Pan Alley, i più importanti autori ed editori americani) si meravigliarono non poco quando eden abhez (rigorosamente in minuscolo per sua volontà) diede alla luce “Nature boy”, unica canzone di successo del suo repertorio. George Alexander Aberle (New York, 1908-Los Angeles, 1995), figlio di un ebreo e di madre scozzese rimase ben presto orfano di entrambi i genitori e passò la sua infanzia in un orfanatrofio di Brooklyn dal quale uscì a 9 anni adottato da una famiglia del Kansas. Crebbe col nome di George McGrew e imparò presto a suonare il pianoforte. Nel 1930 si esibiva già nei bar e locali di Kansas City ma dieci anni dopo si trasferì a Los Angeles in un locale di proprietà di John e Vera Richter, una coppia di vegetariani vegani seguace del movimento tedesco Wandervogel (soppresso da Hitler nel 1936) che predicava il ritorno alla natura e alla vita all’aria aperta, alla semplicità dell’abbigliamento e all’uso di barba e capelli lunghi e i cui seguaci venivano chiamati “nature boys”, si nutrivano di sola frutta e verdura e usavano solo i termini Dio e Infinito con la lettera maiuscola. Nel 1947 compose la sua celebre canzone “Nature boy” e si convinse che era adatta alla voce suadente e melodiosa di Nat King Cole. L’occasione arrivò presto in quell’anno quando il famoso cantante nero fece tappa al teatro Lincoln di Los Angeles. Con un espediente ahbez si portò nel backstage e attaccò alla porta del camerino di Cole il suo spartito. Da ottimo musicista e pianista qual era, Nat King Cole fu subito catturato da quella musica e decise di eseguire la canzone nei suoi concerti. Deciso fortemente ad incidere il brano non esitò ad attendere un lungo periodo di settimane per il ritrovamento del suo autore la cui autorizzazione era necessaria per la pubblicazione. La spasmodica ricerca ebbe fine quando un giorno ahbez fu ritrovato che bivaccava sotto la lettera L della grande scritta Hollywood sulla collina di Los Angeles. Viveva con moglie e figlio alla maniera degli hippies (il movimento era esattamente l’antesignano di quello che venti anni dopo sarebbe diventato popolare in tutto il mondo) e “Nature boy” potette finalmente essere pubblicata nel 1948. Il disco di Nat King Cole fu un vero trionfo di vendite che lo portarono a 500mila copie nel giro di in mese e 1 milione prima della fine dell’anno. eden abhez conquistò le copertine di celebri rotocalchi americani e la canzone fu subito incisa da cantanti del calibro di Frank Sinatra e Sarah Vaughan entrando ufficialmente nel repertorio standard del jazz vocale e strumentale. abhez fu anche citato per plagio di una canzone yiddish e perse la causa dovendo pagare la cifra di 25.000 dollari. A dire il vero altri critici identificarono il tema della canzone con un quintetto di Antonin Dvorak del 1887. ahbez continuò a scrivere altre canzoni ma senza avere successo di sorta (per la cronaca realizzò un album in piena era rock mescolando psichedelia e musica exotica ma non fu mai riconosciuto come un grande compositore). “Nature boy” continuò ad avere un successo straordinario. Ella Fitzgerald, Johnny Mathis, Lorez Alexandria, Annie Ross, Frankie Lane, Etta Jones, Peggy Lee, Bobby Darin per arrivare ai magici strumentali di Barney Wilen, John Coltrane (in sublime forma ascensionale), Miles Davis, Art Pepper, George Shearing, fino alle moderne versioni di John Hartman, Kurt Elling, George Benson, Gregory Porter, Greg Osby, Roy Hargrove, Zoot Sims, Abbey Lincoln, Helen Merrill, Tony Bennett (recentemente anche in duetto con Lady Gaga), Jamie Cullum senza dimenticare i momenti rhythm’n’blues di Marvin Gaye, Natalie Cole, Michael Jackson, Aaron Neville, Paolo Nutini, Lizz Wright e per non tacere le licenze rock di Grace Slick (possente la sua versione acida accompagnata dai Great Cociety), Cher, David Bowie (dal celeberrimo musical “Moulin Rouge”), Massive Attack.  Splendide esecuzioni furono quelle brasiliane di Caetano Veloso, Vinicius de Moraes e Toquinho e Maria Bethania e quella exotica di Esquivel ma anche nel nostro paese sono da segnalare quelle di Mina, Musica Nuda ed Enrico Rava.